GLI ALUNNI

Tutto stava finendo. Seduta davanti ai fogli bianchi in cerca delle parole più giuste per stendere la relazione al termine dell'anno scolastico, aveva cominciato a sentire un gran vuoto dentro. Già, la scuola stava finendo. Una settimana e mezzo, anzi due e poi loro se ne sarebbero andati. Lei avrebbe continuato il suo lavoro, però ... no, loro non li poteva dimenticare. Ani si è alzata. Era da sola ma dentro casa sentiva le voci dei suoi alunni. Era stato difficile. L'anno scolastico era iniziato da un paio di mesi quando lei era arrivata. Questo era il suo lavoro, intervenire quando i bambini hanno bisogno. No, non era una psicologa, anche se le piaceva. Era una mediatrice culturale. Trasmettere la sua cultura, confrontare la vita da un paese all'altro, parlare con i bambini nella loro lingua madre. O Dio! Ce n'erano alcuni che non volevano parlare perché si vergognavano. Poi gli altri ... Ma tutti avevano una particolarità. Ani rivedeva tutto. Il primo incontro.

"Adesso la bocciata sarò io." - questo era stato il primo pensiero. Erano nove. La metà quasi più alti di lei. Un po' indifferenti. "Chissà che pensano!"- cercò di guardarsi per capire come appariva. Inutile: la sua presenza non metteva paura. Con una tranquillità finta parlò del suo lavoro, più o meno spiegò che li avrebbe aiutati per tutto l'anno. - Volete sapere qualche altra cosa? Avete qualche domanda? Tre di loro li conosceva, erano stati insieme l'anno scorso. Erano cambiati, cresciuti. Li riconobbe con occhio sicuro. - Voi? Già ci conosciamo e credo che già sappiate cosa faccio. Alla fine saremo amici. Io sono qui per voi, per tutti i problemi, per parlare e per aiutarvi nelle lezioni. Due occhi la seguivano indifferenti, messi un po' in disparte. - Tu da che paese vieni? Sei con me? - Chi io? Boh. Non lo so, sì sono albanese ma... - Vabbene, allora siamo insieme. Per adesso potrete andare nelle vostre classi. Per lavorare ci organizzeremo in piccoli gruppi. Tre la prima ora, tre la seconda e alla fine voi. Non credo che ci sia bisogno di venirvi a chiamare. Gli insegnanti lo sanno, perciò... Aveva visto allontanarsi gli altri. Uno alto con la schiena curva, lo zaino sulle spalle che non lo guardava neanche "l'albanese". Poi lo sguardo incuriosito e lucido del ragazzo più basso. Anche l'altro così. Rimasta da sola aveva cominciato a rivolgere delle domande, l'unico modo affinché parlassero. - Come ti chiami e da dove vieni? - Io, mi chiamo Ilir. Pian piano avevano cominciato a dire i loro nomi, Ilir, Beni e Turi. Poi sono arrivati gli altri. Lei scriveva i nomi e le difficoltà che loro avevano. Adi e Gimi erano più tranquilli, parlavano e ridevano senza preoccupazione. E alla fine Dritani, Artani e Skerdi. Artani quasi non parlava, era quello alto, indifferente. Dritani, i nomi erano quasi uguali, al contrario era basso e curioso. Lui voleva parlare solo in italiano. Skerdi... non riusciva a capirlo così curioso e pauroso allo stesso momento.

Tornata a casa aveva ricontrollato le loro schede. "Ce la farò o no? Devo crederci, devo crederci e volerlo." Così era passato il primo giorno. Adesso, che la fine stava arrivando, era tutto diverso. Le dispiaceva che stesse finendo. Era contenta che loro potessero avanzare di classe. Adesso... -Prof, prof, lo sai? Oggi ho presso sufficiente. -Ani, ti prego ho paura, ho l'interrogazione di scienze. Correvano nei corridoi raccontandole tutti i crucci che provavano. Se tardava un po', li trovava nel corridoio con gli occhi tristi che riprendevano a splendere non appena la vedevano. - Abbiamo pensato che non saresti venuta oggi. E lei cercava di non fare assenze. Solo durante il suo viaggio in Albania aveva dovuto mancare - Vi dico che devo partire, due settimane passano velocemente. Mi sostituirà un ragazzo, meglio per voi, no? Così vi lascio in pace. La rimproveravano sempre perché faceva tante schede di lavoro. Anche se dopo lo prendevano come un gioco, una gara per chi finiva per primo. Alketi, che era arrivato due settimane dopo gli altri, ogni volta arrivava e si sedeva aprendo il libro davanti a sé. Lei conosceva ormai anche i loro sorrisi. Capiva quando qualcosa non andava. Con loro aveva passato anche dei problemi. Come si poteva fare a lasciarli perdere? Da due anni seguiva Beni. Al primo momento, appena arrivato in Italia, aveva avuto tante difficoltà. Ma in sette mesi comunicava bene e imparava le materie come tutta la classe. Ora vedeva che qualcosa non andava. - Beni, mi puoi dire come mai i tuoi risultati sono così? Ti sembra normale, ti va bene? - No, ma non lo so. - A casa come va? - La mamma come sempre lavora tutto il giorno. Si stanca tanto. Mentre il papà non ha ancora trovato lavoro. Poi sta a casa e fuma, fuma molto. Aveva capito tante cose in queste parole. I suoi alunni erano grandi, erano cresciuti tra problemi familiari e dolori. Negli occhi di Beni aveva visto il riflesso di quello che succedeva tutti i giorni. La mamma che tornava, il padre che cercava i soldi per le sigarette, i documenti che non arrivavano mai. Lui che cercava di capire perché i genitori litigavano. Lui che era cresciuto tra genitori che si amavano. Avevano fatto l'università tutti e due e ora lei stirava in una lavanderia e il padre, per quel poco tempo che aveva lavorato, aveva lavato le macchine. Era dura. In un momento aveva sentito il bisogno di dargli un abbraccio, di tenerlo stretto. La sua infanzia era distrutta, l'età che non tornava più, non aveva più giochi ma paure, problemi. Senza capirlo lui era diventato la spalla dove la madre versava le lacrime. Dolente, inghiottì le lacrime: - Dì alla mamma che vorrei incontrarla. Lui annuì con la testa. Durante il giorno aveva pensato tanto a Beni. Incontrando la mamma si era resa conto che tutto era vero. - Però cerca di comprendere, è piccolo ha bisogno di giocare e non di pensare a cose che non gli mancheranno durante la vita. Lascialo uscire un po' di più. Lascialo giocare. - Hai ragione. - Solo queste parole aveva potuto dire sua mamma con le lacrime che riempivano gli occhi.

Ani non sapeva cosa fare. Tutti i suoi alunni avevano dei problemi. I loro genitori lavoravano dalla mattina alla sera. Uno di loro, lei lo sapeva bene, cucinava da solo. Quello che trovava, lo preparava per sé e per il fratello più piccolo. C'erano dei giorni che non poteva pensare ad altro. Un giorno aveva visto Gimi con la borsa della spesa piena. Da una parte portava la borsa, con l'altra teneva l'equilibrio. "Poverino!" A chi doveva pensare per primo? Erano tutti uguali. La compassione prendeva il sopravento. - Basta, Ilir! Basta! Non capisco perché devi sempre urlare. Anche gli scherzi hanno un limite. Se non ti piace vai in classe. Quel giorno la testa le stava scoppiando. Aveva anche lei una famiglia. I suoi problemi non erano di meno. Non ne poteva più. La stanchezza, i problemi, il lavoro. Loro avevano smesso. Non li aveva mai sgridati. In un primo momento ci fu silenzio, ma poi... - Ma se non ci lasci scherzare, che amica sei? Vabbene in classe ma anche con te così? - Ilir parlava d'un fiato, come se avesse paura che Ani ricominciasse. - Non ho detto che non sono vostra amica, ma mi fa male la testa. - E allora ci puoi richiamare, senza alzare la voce, però. Aveva cominciato a sorridere. Poi aveva visto le loro testoline abbassate sopra i libri. Già, loro non avevano colpa. Lei quando entrava in classe non poteva più essere Ani, era la loro amica. Loro avevano bisogno di giocare, scherzare, parlare e studiare. Giusto. - E con questo? - nascondendo il sorriso vide Ilir intensamente - Mi state dicendo che non potete imparare con me? Perché sono la vostra amica? E da quando? - Ma no prof. Poi, vedendo lei, avevano capito che scherzava. Avevano cambiato faccia. Ma sempre in silenzio, la prof aveva mal di testa. - Mi bocciano, lo so. Non posso farcela. - Artan , come sempre un po' curvo, parlava senza guardarla negli occhi. Si vedeva che era triste. - Ma perché parli prima del dovuto? Aspetta. C'è ancora tempo, possiamo farcela. Basta più volontà, proprio poco. Non guardare tutto il giorno la TV. - Ma io non guardo. Studio. Che posso fare se non capisco. - Io prof, quando mi siedo imparo, ma poi... - Skerdi cercava di dare l'esempio, anche se era forse peggio di Artan. - Basta, tu pensi solo alle ragazze. Guarda come ti pettini i capelli. Perché metti così tanto gel? Poi stai tutto il giorno in giro. Lei rideva. Loro due sempre così, con le parole. Skerdi curava i capelli nei minimi particolari. Artan lo prendeva in giro. Dritani cercava di essere il migliore. - Dai smettetela. Passiamo ai verbi. Mi chiedi qualcosa prof? - Ok. Vi ho detto di impararli bene. - Io li so, chiedimeli e vedrai. - Allora Artan, il passato prossimo del verbo "cantare". - Aspetta che lo so. L'ora correva. Da una lezione all'altra, da scienze a geografia, da matematica a grammatica. - Ani, un ragazzo con l'orecchino viene qui a scuola con noi? Mi hanno detto che è albanese, ma non lo conosco bene. - Non so, di chi parli? Non ho visto nessuno con l'orecchino, ma anche se fosse, non cambia niente. Dovete sapere che tra le libertà della persona c'è anche questo, non si deve esagerare, ma siamo liberi. No? L'ora seguente osservava le orecchie dei suoi alunni. - Adi. Da quando porti l'orecchino? Non mi è sembrato d'averlo visto prima? - Da tanto tempo prof. Mi piace. - Non ho detto niente. Solo che non ti avevo visto.

Ogni giorno vedeva che loro erano cresciuti in un altro ambiente. Già, in Albania, almeno quella prima del '91 sarebbe stato inimmaginabile una cosa simile. Loro avevano tante libertà, giocavano e vivevano in un altro ambiente. All'improvviso ricordò quando nelle vie di Tirana non potevi uscire coi pantaloni stretti perché un gruppo di controllo "sociale" te li poteva strappare in mezzo a tutti. Tempi difficili e, per fortuna, passati. Loro avevano tutto. In questo c'era anche paura. - Potrei disturbarla un momento? Volevo parlare di Dritan? Non so se sapete che è svenuto in classe. - No, non lo sappevo. Non mi ha detto niente. - Non abbiamo capito la causa, ma ad un tratto è caduto per terra sbattendo la testa contro la porta. Poi quando lo hanno alzato tremava ed era bianco in faccia. Non sappiamo se c'è qualcosa che non va nella sua salute o forse è solo la crescita che fa degli scherzi, con sua mamma non ci siamo intesi. Lei non parla italiano. Se le è possibile comunicare con la famiglia... pensiamo che debba essere visitato da un medico. - Sicuramente. Io cercherò da adesso di chiamare suo padre. Grazie per l'avviso. Dopo pochi minuti Dritan era davanti a lei. - Allora come stai? Cos'è successo, posso saperlo? - Ma prof. niente sono svenuto. Ho fatto la visita ma non c'è niente. - Sicuro di quello che mi dici? Io chiamo tuo padre non perché non ti credo, ma perché sono preoccupata, voglio sentire da lui cosa ha detto il medico. Anche voi altri, se avete dei problemi di salute dovete dirlo, una visita è più che normale. - E io che sono senza documenti? La mamma ha paura di portarmi dal medico. - Ci sono le possibilità di farsi visitare. C'è il pronto soccorso, nessuno ti lascia ammalato in mezzo della strada. Dritan aveva abbassato la testa. - Dritan sicuro che stai bene? Cosa hai sentito prima che perdessi i sensi? Ti girava la testa, altro? - Ma prof, un amico mi ha dato un pugno dietro la schiena, vicino ai reni. Mi ha fatto male, avevo tanto dolore e poi non ricordo più nulla. - Ma perché non l'hai detto agli insegnanti. - Non voglio che lo espillano. Lei rimase zitta. Poi Artan intervenne: - Ma tu hai paura che poi lui ti picchi. Lo so io. Perché non fanno male a me? Io saprei cosa rispondere. - No, Artan, così no. Non dovete litigare con nessuno. Siete amici e queste cose succedono, però dovete dirlo. Perché oggi è così ma domani senza volere potrebbero farvi più male. Nel riferire agli insegnanti questo segreto si era sentita male. Non aveva fatto nomi, ma aveva tranquillizzato che la salute andava bene. Poi la telefonata con il padre di Dritan. Le cose erano trascorse molto velocemente. I mesi fuggivano col passare dei giorni e delle ore.

- Vi telefonerò per sapere come avete finito la scuola. La foto che faremo spero di portarvela io alla ripresa dell'anno scolastico. Arriverà presto, non dovete preoccuparvi. Divertitevi, ma non dimenticate i compiti. - Io tanto sarò bocciato, cosa vuoi che faccia? L'anno prossimo farò le stesse cose. Non aveva parlato, ma il suo sguardo affilato aveva seguito la voce. Artan rideva coprendo la faccia. Anche gli altri ridevano. - Dai, adesso andiamo e ci vediamo sabato. - Perché prof.? Così presto, non stiamo ancora un po'? - Ma come, volete dormire qua? Ci vediamo sabato ho detto, per oggi abbiamo finito. Avete qualcosa che non vi è chiaro? - No, ma.. - Allora fuori. Ridendo e scherzando erano usciti. Tutto stava finendo. Lei si sentiva investita dall'anno scolastico e commossa dalla fine.

"...I risultati degli alunni si vedranno alla fine. Ci sono stati dei miglioramenti e da cinque alunni che rischiavano di non passare di classe solo per tre non si sa ancora come finirà. Per gli altri anche gli insegnanti sono del parere che ci siano stati dei cambiamenti durante gli ultimi mesi, sia nel comportamento che nei risultati. Tutti e nove gli alunni hanno riportato dei miglioramenti, ad eccezione dei tre alunni con problemi di apprendimento della lingua e vuoti in diverse materie..." Finita la relazione si era seduta rivedendo nella memoria persone conosciute e incontri vissuti durante l'anno, soffermandosi affettuosamente su ciascun alunno. L'anno prossimo sarà diverso, loro più cresciuti e lei... Lei ancora lì, almeno così credeva e voleva.

Mediatrice albanese:

Ardita Demneri

Giugno, 2003