Alla mia città
che tutto mi ha dato
IN CERCA DELLA
PATRIA
di Nenad
Stojanovic
Dal diario
personale
5. Avgust 1992.
Gledam
maloprije Olimpijadu u Barceloni. Razdragani navijaci su sretni
zbog pobjede svoje zemljakinje. Masu svojim zastavama u znak
pobjede. I ponosni su na svoju zemlju. Sjetih se kako sam se
nekada i ja radovao pobjedama nasih takmicara. I bio sam ponosan
na moju zemlju. Sada te zemlje vise nema i ja nemam na sta vise
biti ponosan. Upitah se hocu li ikada vise imati zemlju na koju
cu biti ponosan.
5. Agosto 1992.
Guardavo un
attimo fa le Olimpiadi di Barcellona. I tifosi erano felici e
gioiosi per la vittoria della loro compatriota... Sventolavano
le loro bandiere in segno di vittoria. Ed erano fieri del loro
paese. Mi ricordai come anch’io una volta gioivo di fronte
alle vittorie dei nostri atleti. Ed ero stato fiero del mio
paese. Ora questo paese non esiste più e io non ho più niente
di cui essere fiero. Mi chiedo se mai più avrò un paese di cui
potrò essere fiero.
PREFAZIONE
Vi racconto una
storia nata nella mia fantasia. Molto probabilmente sarebbe
stata destinata a rimanere chiusa nella mia mente, ma un fatto
strano e curioso mi ha spinto a metterla per iscritto.
Infatti, qualche mese fa, lessi in un giornale una reazione
riguardante il "fenomeno" della mucca pazza.
Ricorderete che il governo britannico aveva deciso di boicottare
qualsiasi decisione della Commissione Europea, finché
l’embargo contro l’esportazione di "suoi" bovini
non sarebbe stato tolto da parte degli altri paesi dell’Unione
Europea. Ora, alcuni rappresentanti della Scozia reagirono
dicendo che loro non erano assolutamente d’accordo con la
decisione presa da Londra (e, dunque, fortemente inglese
ai loro occhi). Sostenevano che i bovini scozzesi non erano
colpiti dal virus della mucca pazza e che, perciò, potevano
essere tranquillamente consumati da altri Europei. Per questo
motivo gli Scozzesi minacciavano di trattare separatamente e
indipendentemente dal governo di Londra con Bruxelles, sperando
di poter trovare comprensione e interesse da qualche commissario
europeo. L’autore dell’articolo sfruttò l’occasione
presentataglisi per parlare delle aspirazioni scozzesi
all’autonomia e all’indipendenza da Londra. Pare, infatti,
che il partito politico che si batte per questo ideale ottenga
sempre maggiori consensi presso la popolazione scozzese. Fra
qualche anno, si ipotizzava, questo partito avrebbe potuto
addirittura avere la maggioranza in Scozia rendendo così più
reali le minacce per la secessione. L’articolo fu arricchito
con appositi riferimenti storici in cui si precisava che il
Regno Unito esisteva da "appena" trecento anni e che
gli scozzesi, in fondo, non hanno mai completamente accettato il
governo del Westminster Palace.
La mia prima impressione fu piuttosto violenta, arrabbiata. È
possibile che la gente non riesca a stare assieme, tranquilla
nella propria casa, senza dover creare inutili conflitti e
invocare certi diritti che non farebbero altro che danneggiare e
mettere in pericolo i diritti più fondamentali dell’uomo
quali la pace, la giustizia, la libertà? Perché vogliono
rendere più oscuro e insicuro il futuro dei loro figli? In un
secondo momento, però, capii che la Scozia non era per niente
isolata e che in tanti stati europei c’era gente che non
voleva vivere assieme ad altra gente, perché qualcosa di innato
le diceva di dover temere l’altro ed odiarlo con una forza
cieca ed incomprensibile. Proprio in quel periodo, insomma, i
vari Bossi invocavano il diritto alla secessione dei loro miseri
staterelli immaginari ed illusori.
E io non saprei rispondere se è effettivamente meglio vivere
assieme o separati. Anzi, direi che nella maggior parte delle
volte sono piuttosto ottimista e tendo a considerare l’unità
e la fratellanza il pilastro della vita di ciascuno di noi. In
altre occasioni, invece, il mio atteggiamento è piuttosto
pessimistico (appoggiato, talvolta, da certe immagini crudeli
che vedo in una terra a me non sconosciuta e da terribili storie
che sento e leggo). Mi dico che "homo homini lupus"
non è ancora una massima senza valore e che per certi popoli
sarebbe meglio stare isolati gli uni dagli altri; come le bestie
che bisogna dividere in diverse greggi per fare in modo che non
si divorino tra di loro.
Questo racconto ha preso così spunto dalla mucca pazza e parla,
a mio avviso, di qualcosa di pazzo che c’è in noi. Questa
coincidenza è, ovviamente, solo casuale come ogni
riferimento ai personaggi e alle situazioni realmente esistenti
(o esistiti). Il giudizio sta a voi e io sono in ogni caso
contento di aver speso una parte della mia estate per scrivere
qualche cosa a cui mi sono sempre interessato. Il mio augurio più
sincero è che la storia che andrò a narrar rimanga solo e per
sempre prodotto della mia fantasia e delle mie paure.
Lugano, luglio
1996
Parte prima
Il lago di
Lugano ha nel mese di maggio un aspetto molto bello ed
affascinante. Il San Salvatore ed altri monti circostanti
acquistano in quel periodo una veste verde scura che si
rispecchia perfettamente nelle limpide acque del lago. Tutta la
Natura sembra vivere pienamente la propria giovinezza e il canto
degli uccelli annuncia che si è ormai in piena primavera,
indicandoci che bisogna cogliere pienamente quel attimo per
scoprire nuovi amori, nuove gioie... Per riscoprire la vita.
In più l’aria è molto gradevole in quel periodo dell’anno.
Direi semplicemente che a Lugano si sta bene nel mese di maggio.
Il freddo dei mesi invernali e le prime piogge primaverili sono
ormai lontani dietro le spalle e l’afa estiva non si sente
ancora. Sì, è proprio un bel mese... Specialmente per gli
studenti, perché la scuola sta ormai per finire e l’estate
sorride gaia, promettendo nuove avventure, vacanze invitanti in
qualche posto esotico... Se qualcuno volesse obiettarmi che
l’aria a Lugano è ugualmente gradevole anche in settembre gli
risponderei che ha ragione, ma che il mese di settembre è molto
meno promettente del mese di maggio. La scuola, il lavoro, le
varie attività, ricominciano, insomma, e uno non può
aspettarsi altro che il freddo e il gelo. È completamente
un’altra cosa. Proprio in quel periodo Marco era riuscito a
fare un salto in questa città dopo lunghi mesi di studio e di
stress che aveva avuto a Roma. Il primo anno all’Università
di Roma era stato particolarmente impegnativo e difficile. In più
non gli risultava facile reintegrarsi nella realtà romana.
Sì, è vero che a Roma ci era nato e lì aveva vissuto i primi
quindici anni della sua vita. Ma a sedici anni si era dovuto
trasferire a Lugano con i suoi genitori. Suo padre, infatti,
aveva ottenuto un prestigioso posto di lavoro in una banca di
Lugano: non poteva rinunciare perché lo pagavano davvero bene e
loro, in quel periodo, avevano bisogno di soldi per tirare
avanti. Il contratto era però solo di quattro anni, ma a suo
padre l’idea di trasferirsi a Lugano piaceva lo stesso, anche
per il fatto che così sarebbe stato più vicino ai suoi
genitori, i nonni di Marco, che abitavano in una casetta nella
periferia di Milano.
Sua madre, napoletana d’origine, non voleva invece andarsene
da Roma, in un paese sconosciuto, anche se le dicevano che pure
lì la gente parlava l’italiano. Lei amava fin troppo il suo
Sud: il Sud dove la gente era riuscita a mantenere la sua
gentilezza e ospitalità malgrado tutti i problemi che aveva,
dalla mafia alla disoccupazione, al malessere materiale. Il Sud
delle bellissime coste che ti invitano a fare un salto nelle
limpide ed azzurre acque del mare. Questo era il suo Sud e stare
a Roma era già un sacrificio molto grosso per lei. Riusciva a
sopportarlo in qualche modo pensando che, comunque, in qualche
ora di treno poteva ritornare nella sua Napoli incasinata e
sporca, ma ugualmente meravigliosa ed affascinante. Alla fine
però aveva dovuto cedere alle argomentazioni del marito, forse
perché il bisogno di avere abbastanza soldi per mantenere la
famiglia era più forte delle aspirazioni del suo cuore...
E lui, figlio unico, guardava d’altra parte con entusiasmo il
nuovo paese dove si sarebbe trasferito. La Svizzera dei
cioccolati e degli orologi, delle strade pulite e dei servizi
pubblici efficienti. Era quello che sognava. I quattro anni
passarono però in fretta e, senza che se ne accorgesse, arrivò
il momento del ritorno a Roma, dove avrebbe poi incominciato gli
studi universitari.
Ma ora eccolo di nuovo a Lugano a parlare con i suoi vecchi
amici dal liceo sulle sponde del Lago di Lugano. C’era Gianni,
il suo miglior amico e per alcuni anni compagno di banco. E poi
Pietro, quel ragazzo vivace ed irrequieto che sapeva tutto sullo
sport: praticamente dormiva con la "Gazzetta dello
Sport" sotto il cuscino. Maria era una ragazza che veniva
dal Libano. Era venuta in Svizzera a causa della guerra,
pensando che presto sarebbe ritornata nel suo paese. Invece era
rimasta e ora non aveva più nessuna intenzione di tornare.
Erano diventati ottimi amici durante gli anni del liceo. Ad un
certo punto gli sembrava addirittura che tra di loro ci fosse
qualcosa di più di una semplice amicizia, talmente erano vicini
l’uno all’altra. Quante passeggiate lungo il lago, quante
chiacchierate serie e meno sulle panchine del parco Ciani... A
lui piaceva la sua semplicità, il suo modo di comportarsi
sempre silenzioso e a volte un po’ misterioso. Era una ragazza
carina ed intelligente e Marco aveva da sempre ammirato la sua
capacità di imparare una lingua nuova in così poco tempo e di
integrarsi senza molti problemi nel nuovo ambiente. Infine anche
lui era uno straniero in Svizzera, ma almeno non aveva il
problema della lingua.
Stavano così seduti in un bar sulla riva del lago raccontandosi
gli aneddoti del liceo. Questi ricordi erano molto belli e vivi.
Tutto sommato il periodo liceale è uno fra i più belli della
vita. A distanza di solo un anno dalla fine degli studi, tutti
si rendevano perfettamente conto di questo e, di conseguenza, i
loro discorsi non potevano non essere carichi di nostalgia.
Nostalgia, d’altronde, molto ben celata e di cui nessuno
voleva ammettere l’esistenza, dato che in quel caso si sarebbe
andati incontro ad una contraddizione. Infatti, durante gli anni
della scuola, ognuno di loro continuava a ripetere che non
vedeva l’ora di andarsene dal liceo ed incominciare finalmente
la vita universitaria magari abitando separatamente dai
genitori. Il sogno degli adolescenti d’indipendenza e libertà
dai vincoli familiari sarebbe stato realizzato. E invece, dopo
appena un anno di vita dedicata agli studi universitari, ognuno
di loro si era reso conto che i sogni sono una cosa e che la
realtà è qualcosa di completamente diverso. Perciò, pur non
ammettendolo, ciascuno di loro sentiva la mancanza della classe
del liceo, dei vecchi amici, di quei piccoli pettegolezzi che
giravano molto spesso per i corridoi della scuola animando le
discussioni e la vita di uno studente. Ovviamente quei
pettegolezzi facevano un po’ meno piacere quando la persona
tirata in ballo eri proprio tu ma, come sempre, anche quello
faceva parte del gioco e uno doveva avere il coraggio di
accettarne le regole.
Il tempo passava ma i loro ricordi non si esaurivano. Ad un
certo punto Gianni disse che quel giorno non aveva letto le
notizie, quindi si alzò per prendere un giornale. Gli altri
reagirono scherzando:
‘’Ah, sei sempre il solito! Non cambi mai. Lascia stare per
un momento il tuo giornale: non fare sempre
l’intellettuale.’’
Gianni non diede però ascolto alle loro provocazioni e non si
lasciò sconcentrare. Per lui leggere il giornale era
assolutamente necessario.
‘’Ha, guarda qui! Quel tipo ora vuole che il suo Nord
diventi indipendente. Ve lo dicevo io che non si sarebbe fermato
al federalismo. Sapete come chiamerà il suo stato? Padania. Una
bella invenzione! La Padania che deve opporsi alla Roma padrona
e ladrona.’’
Pronunciò queste ultime parole imitando l’accento milanese e
assumendo una voce bassa e rauca. Gli altri commentarono la
notizia ridendo di gusto. Solo Maria rimase in silenzio.
‘’Ma quello fa davvero ridere, disse Pietro. Vuole soltanto
attirare l’attenzione su di sé. Si fa una bella pubblicità.
Scusami Marco, ma proprio non riesco a capire voi italiani. Noi
in Svizzera non pensiamo nemmeno per sogno di spartire il nostro
paese. Abbiamo già il nostro federalismo e ci va benissimo così.
Non vedo perché mai un cantone dovrebbe separarsi completamente
dagli altri. L’è propi ‘na roba da ‘talian! E pure
appartenete tutti alla stessa cultura, che da noi non è proprio
il caso.’’
Marco rifletté un attimo e poi rispose: "
‘’Sì, ma voi siete uniti non perché vi amate, ma perché
avete l’interesse di stare assieme. Quando gli svizzeri
tedeschi non avranno più l’interesse di venire qui da voi per
fare le vacanze, vi scaricheranno in un baleno.’’
‘’Ma vedi che non hai capito niente di noi svizzeri! Non è
vero che non ci amiamo. Sì, ogni tanto abbiamo qualche problema
di comunicazione, ma in generale ci capiamo benissimo. Siamo
fieri della nostra diversità e mai uno svizzero tedesco
vorrebbe sbarazzarsi di noi ticinesi, ad esempio. Perché anche
lui è fiero di avere un connazionale di un’altra
cultura.’’
‘’Va beh, lasciamo perdere, disse Marco. Non bisogna dare
tanto ascolto a quel tizio. È un buffone: non sa ciò che
dice.’’
‘’Anzi, aggiunse Pietro, io mi diverto un casino quando
guardo i suoi interventi alla televisione.’’
E di nuovo tutti risero di gusto. Solo Maria rimase in silenzio.
Poi disse piano, come se avesse paura delle sue stesse parole:
‘’A me non fa ridere per niente. Ho molta paura per quello
che potrebbe succedere. Non mi piace quando qualcuno comincia a
riscaldare gli animi della gente, sollevando l’odio nei
confronti dell’altra gente. Sarà anche a causa della mia
esperienza personale, ma io non riuscirò mai a capire perché
gli uomini devono temere altri uomini e odiarli come se fossero
dei mostri.’’
Le acque del lago cominciarono a diventare più inquiete e a
cambiare lentamente i loro colori. Dal blu chiaro si passò al
blu scuro, e poi al verde, grigio, nero, man mano si avvicinava
la sera. Il gruppo di amici rimase seduto nel bar sulla riva del
lago fino alla tarda serata, ancora in tempo per vedere il
tramonto che accendeva il cielo lontano all’orizzonte. Era un
vero spettacolo! Gli occhi di Marco incrociarono in un momento
quelli di Maria e lui sentì tremare per un attimo breve, fin
troppo breve, tutto il suo corpo e provò uno strano sentimento
di gioia e di dolore allo stesso tempo. La gioia per la speranza
che lo sguardo di Maria gli aveva lasciato. Il dolore perché
consapevole che già l’indomani sarebbe stato di nuovo lontano
da questa ragazza che gli aveva dato così tanto, che gli aveva
preso così tanto, che... Si domandò cosa provava lei in quel
momento ma non riuscì a rispondere alla sua domanda. Il suo
interrogativo rimase nel vento che lo portò lontano attraverso
il lago in un paese da dove nessuna risposta può mai arrivare.
Perché quel paese è il paese dell’anima umana ed è
impossibile conoscere i suoi segreti.
Parte seconda
Affacciato al
finestrino dell’Intercity che lo portava a casa, a Roma, Marco
osservava i paesaggi che gli scorrevano davanti agli occhi. Alle
montagne e laghi svizzeri si susseguirono i monti della
Lombardia settentrionale. Essi sparirono lentamente e cominciò
l’interminabile pianura padana. Una vista troppo monotona per
un diciannovenne. Guardava ancora fuori dal finestrino, ma i
suoi occhi verdi cercavano ormai un volto femminile
all’orizzonte nascosto nella foschia. Tentava di ricordare il
viso di Maria ma non riusciva. Com’è strano il funzionamento
del nostro cervello! Riesco a vedere con chiarezza i volti di
tutti i miei amici e conoscenti, tranne quello cui tengo di più.
E pensare che solo qualche ora prima era lì, davanti a me...
Immerso nei suoi pensieri Marco era lontano dalla realtà.
Immaginava di essere accanto alla persona che amava, o che
almeno credeva di amare; nel suo abbraccio trovava la sicurezza
e la serenità; così uniti sarebbero rimasti attaccati l’uno
all’altra per sempre. Ma quello era solo un sogno e Marco non
voleva interromperlo: voleva restare per sempre nell’illusione
che anche lei provasse gli stessi sentimenti per lui.
Intanto il treno proseguiva impietoso per la propria strada,
senza badare ai sogni di un giovane uomo che avrebbe voluto
fermare il tempo, far durare per sempre il suo sogno, la sua
futile illusione. Il treno invece andava sempre avanti: fermarlo
tirando il freno d’emergenza sarebbe stato considerato un
reato. Perché quelli che vogliono fermare il corso della vita
saranno per sempre condannati a rimanere sospesi fra la terra e
l’aria, incapaci di prendere un altro treno e senza nemmeno le
ali per poter volare nel cielo dei sogni.
Il treno correva e ad un certo punto Marco si accorse che la
pianura padana era già dietro le spalle; incominciarono ad
intravedersi i primi colli emiliani e, poco dopo, quelli
toscani. Cercò di scacciare via i suoi ricordi che lo facevano
soffrire e lo rattristavano assai, e cominciò ad ammirare gli
incantevoli paesaggi che scorrevano davanti a lui. "Che
meraviglia, qui mi piacerebbe portare una volta Maria,
noleggiare una macchina e girare, girare per queste colline
coperte di girasoli, di grano, di bellissimi fiori di infiniti
colori e profumi, soffermarsi poi in qualche cittadina
medievale, tornare indietro nel tempo... Vorrei farle vedere
quanto è bello questo mio paese, quanto è bella
l’Italia." Ma basta! Hai promesso di non pensare più a
lei, Marco! Ma come si fa? Oddio, perché devo soffrire così
tanto?
L’Intercity giunse a Roma nell’ora di pranzo. Il sole era
alto nel cielo e i suoi raggi diffondevano una luce molto
intensa sulla città eterna. Per un istante Marco dimenticò i
propri affanni d’amore e si lasciò prendere dall’atmosfera
magica della sua città natia. Anche se aveva trascorso dei
giorni molto belli ed intensi a Lugano, Roma gli appariva più
bella ed affascinante di prima. Si respirava un’altra aria.
Aria carica di anni ed anni di storia che questa città aveva
dietro le spalle. Aria forse un po’ troppo inquinata dal
traffico caotico della capitale. Ma a Marco essa sapeva di
freschezza e di bontà.
Sì, è sempre bello ritornare nel posto in cui sei nato. E poi,
il ritorno a casa è di solito un’occasione privilegiata per
il sentimento patriottico. E’ vero che viaggiare, vedere le
meraviglie del mondo, gli spettacoli naturali e le città ricche
di cultura e di storia, è molto bello ed istruttivo. Ma quando
ti trovi fuori dal tuo paese natio spesso provi quella
sensazione di estraneità, ti senti completamente alieno ai
costumi e alla cultura locale. E il desiderio di aggrapparsi a
qualcosa di solido, a qualcosa che conosci già, cresce sempre
di più. Perciò se per caso ti capita di trovare qualcuno che
viene dal tuo paese, dalla tua regione, ti senti più sicuro e
calmo. E non importa se quella persona nel tuo paese non avrebbe
suscitato alcun interesse per te. Ovviamente tutti questi
sentimenti li teniamo ben nascosti e spesso diciamo: "Come
è bello qui! Si sta proprio bene. Non vorrei più tornare a
casa." Ma in realtà il tuo paese, la tua casa, rimangono
sempre i tuoi più fermi punti di riferimento, l’àncora della
tua salvezza.
Anche Marco provava lo stesso sentimento ogni volta che
ritornava a casa, a Roma. Erano i momenti in cui era fiero di
essere italiano, riscopriva il suo amore per l’Italia.
Dimenticava i suoi vizi, dimenticava Tangentopoli e le strade
sporche. Vedeva soltanto le città con il loro immenso
patrimonio culturale. Firenze, Napoli, Milano, Venezia, Palermo,
Bologna, Siena... Una dopo l’altra le immagini di queste città
di cui aveva apprezzato la diversità di stili architettonici ma
in cui aveva colto anche un profondo legame culturale e storico
che le univa, sfilavano davanti ai suoi occhi come la pellicola
di un bellissimo film che non finisce mai. Davanti ai suoi occhi
si susseguivano gli spettacolari paesaggi che solo l’Italia
poteva offrire: le montagne della Val d’Aosta, il mare della
Sardegna, la campagna umbra... Marco amava la sua patria con un
amore immensurabile.
L’amor patrio è la caratteristica di ogni uomo. Avere il
senso di appartenenza ad una certa cultura, ad un certo popolo,
ad un certo paese è l’esigenza più profonda di tutti gli
uomini. Amare la propria patria è cosa giusta e lecita e
nessuno dovrebbe confondere questo amore col nazionalismo, cioè
con la pretesa che la tua nazione sia sopra le altre. Perché
puoi allo stesso tempo essere profondamente cosmopolita nello
spirito e coltivare un sentimento forte, molto forte per il
paese in cui sei nato, in cui sei cresciuto, con il quale
condividi le scelte e il destino. Eh sì, la tua sorte è
inseparatamente legata con quella del tuo paese. Buona o cattiva
che sia, la sorte della tua patria condiziona la tua vita, le
tue abitudini, i tuoi desideri. Da un momento all’altro ti può
tradire, ti può cogliere al varco. A volte può addirittura
succedere che il paese in cui sei nato non lo riconosca come
vera patria, lo veda come oppressore. Ma sicuramente avrai un
altro punto di riferimento che può essere una certa regione, un
popolo, in cui ti riconosci pienamente e che per te rappresenta
la patria di cui puoi essere fiero.
Davanti alla porta di casa sua Marco sentì un odore di gnocchi.
I suoi lo aspettavano per il pranzo e lui aveva proprio una gran
fame. Gli gnocchi erano il suo pasto preferito e perciò fu
contento che sua mamma ci avesse pensato. Quel odore gli dava
perciò un vago senso di tranquillità, lo avvicinava alla
piacevole atmosfera che ognuno di noi vorrebbe sentire al
rientro a casa propria. Aprì piano la porta e entrò
silenziosamente desiderando apparire di sorpresa davanti ai suoi
genitori. Ma prima che girasse l’angolo nel corridoio per
entrare nel salotto, si fermò perché gli parve di udire una
discussione molto accesa in corso... Sentiva la voce arrabbiata
ed agitata di sua madre:
‘’Non riesco a capire come fai a dire una cosa del genere.
Come se non sapessi quanto soffre quella gente. Non trovano un
lavoro, vivono in condizioni miserabili, fanno fatica a
sopravvivere !’’
‘’È chiaro che è così perché in realtà un lavoro non
l’hanno mai veramente cercato. Hanno da sempre vissuto dei
nostri contributi. Ormai ce l’hanno nel sangue di sfruttare
quelli che hanno da sempre lavorato!’’ rispose il
marito.’’
‘’Ma io non so cosa ti sta succedendo. Non ti riconosco più.
Quel tizio ti ha offuscato la mente con i suoi discorsi
secessionisti.’’ disse la moglie con voce disperata.
‘’Vedi che non hai capito niente ! Io la secessione del Nord
non la voglio affatto, ma credo che bisogna fare un forte
federalismo fiscale. Così quei lazzaroni smetteranno una volte
per tutte di prendere i soldi dagli altri.’’
Marco entrò lentamente nella camera. Il padre balzò dalla
poltrona in cui era seduto e non trovò una parola da
indirizzare al figlio. La madre, che stava già in piedi, arrossì,
gli si avvicinò d’istinto e balbettando disse:
‘’Ah, sei già qui, non ti avevamo sentito. Hm, come è
andato il viaggio? Sai, ho preparato i tuoi gnocchi preferiti.
Immagino che hai fame.’’
Seduto al tavolo nella sala da pranzo Marco rispondeva
macchinalmente alle domande di circostanza che i suoi genitori
gli facevano dopo che si erano ripresi dallo sgomento. Che tempo
faceva a Lugano? Con chi ti sei visto? Sei andato a visitare la
vecchia vicina di casa? I suoi occhi fissavano un punto
indefinito sulla parete bianca e il sapore degli gnocchi ormai
non gli diceva più niente.
‘’Ma come, non hai fame?’’ chiese la madre.
‘’No, non proprio.’’ rispose Marco e, con la scusa di
essere stanco dopo il viaggio andò nella propria stanza, abbassò
le tapparelle e si coricò.
Da solo, disteso nel letto, nel quasi buio, continuava a fissare
un punto inesistente sul soffitto della sua stanza. Cercava di
capire, ma non gli riusciva. Nell’oscurità della camera non
riusciva proprio a capire l’assurdo buio che offusca la mente
umana.
Parte terza
Da quel giorno
Marco incominciò ad interessarsi sempre di più alla politica.
Comprava tutti i giorni i giornali, seguiva i dibattiti alla
televisione. Non volle, però, prendere la tessera di un partito
politico. La questione della secessione della Padania destava in
lui vivo interesse. Voleva scoprire le sue radici, le origini
del sentimento secessionista presso la gente del Nord.
Per questo motivo decise di trascorrere qualche giorno di
vacanza dai nonni paterni, nei pressi di Milano. Voleva sentire
che aria tirava da quelle parti.
Appena giunto a destinazione, rimase attonito per la quantità
di manifesti del partito secessionista che vide attorno a sé.
Appesi ai muri delle case, attaccati agli alberi, perfino
esposti sui vetri delle vetrine dei piccoli negozi, questi
manifesti gli davano un po’ fastidio. Gli occhi del
"grande boss", il leader del partito, lo seguivano
dappertutto con uno sguardo impertinente e minaccioso. E lui
camminava provando tutto d’un tratto uno strano senso di
angoscia, di insicurezza, destinato ad accrescersi sempre di più
nei mesi successivi.
I nonni lo accolsero come da sempre avevano fatto. Felice di
rivedere il nipote, la nonna Lucia gli aprì allegramente la
porta. Era tutta sorridente. Nel suo volto si poteva scorgere la
felicità che provava per quel nipote che non era più il
bambino di una volta, ma ormai un giovane uomo. Il nonno
Vincenzo lo aspettava nella sua stanza. Da un paio di anni era
costretto a trascorrere le sue giornate su una sedia a rotelle,
perché colpito da una semi-paralisi che gli toglieva l’uso
delle gambe. Usciva di rado e mai senza qualcuno che lo
accompagnasse. Anche lui fu molto contento di rivedere suo
nipote.
Il pranzo fu di quelli indimenticabili. La nonna era una
bravissima cuoca e per questa occasione speciale si era
particolarmente impegnata purché ogni pietanza avesse un ottimo
gusto. Marco era molto contento di quest’accoglienza. Per un
momento dimenticò quella sensazione di paura, di insicurezza
che aveva provato al suo arrivo. Tuttavia lo sguardo del grande
boss, del "grande fratello", assieme a quei manifesti,
gli tornarono presto alla mente e lui chiese ai nonni:
"Cosa ne dite dei manifesti che ho visto appesi
dappertutto? Credete che bisogna davvero dare ascolto ai
proclami per l’indipendenza?"
Gli rispose il nonno Vincenzo: "Ma nooo, non succederà
niente. Vogliono solo fare un po’ di spettacolo e basta. Devo
dirti però che ogni tanto certe dichiarazioni mi irritano un
po’. Per me che sono stato partigiano ed ho combattuto per
quest’Italia in cui ora viviamo, non è molto bello vedere
certa gente insultare l’Italia e i princìpi su cui si basa.
D’accordo, possono avere la loro opinione, ma c’è modo e
modo per dire certe cose."
La nonna Lucia soggiunse: " A me però ogni tanto fanno un
po’ di paura. Sai, non è bello sentire gli insulti rivolti ai
meridionali, come se loro avessero chissà quale colpa per lo
stato di cose in Italia. Non mi piacciono quegli insulti anche
perché li sento rivolti contro me stessa, contro la mia
famiglia. Perché loro offendono anche mio figlio che ha sposato
una napoletana e di conseguenza anche te, mio nipote."
"Ecco" disse Marco, "come avete reagito
all’epoca, quando avete sentito che mio padre avrebbe sposato
una ragazza del Sud?"
"In quei tempi mica si badava a queste cose" disse il
nonno. "Sì, ci abbiamo pensato per un attimo. Ma più che
per una nostra avversione temevamo un’eventuale ostilità dei
suoi genitori nei confronti di nostro figlio. Non sapevamo come
l’avrebbero accolto laggiù, a Napoli. Si sa che i meridionali
sono molto protettivi verso le loro figlie. Ma poi, una volta
conosciuti i genitori di lei, non avevamo più alcuna paura. È
gente bravissima e siamo proprio contenti della scelta che ha
fatto tuo padre."
Poco dopo il pranzo Marco uscì di casa e si avviò verso un
piccolo bar che stava un centinaio di metri più in giù. Aveva
infatti un appuntamento con un suo vecchio compagno di giochi
che viveva da quelle parti. Quando da bambino veniva dai nonni
durante le vacanze estive, si trovava spesso con quel suo amico,
di nome Luca, e assieme ad altri ragazzini di loro età
giocavano a calcio a perdifiato, correndo per i prati ancora
vergini, lontano dai palazzi e dalle strade asfaltate. Ma ora
non erano più i bambini di una volta. Anche Luca era uno
studente: studiava Scienze Politiche a Milano. Marco si chiese
come sarebbe stato il loro incontro.
Entrò nel bar aprendo piano la porta. Era uno di quei bar un
po’ anonimi: non si capiva se fosse fatto per i giovani o per
gli anziani. Infatti ad alcuni tavoli erano seduti dei vecchi
che giocavano a carte e a scacchi. Più in là, in fondo,
c’erano altri tavoli occupati dai giovani che ascoltavano la
loro musica, che a Marco parve sconosciuta. E tutti voltarono le
teste verso Marco, una faccia nuova nel loro ambiente, come se
non facessero apposta. Per Marco fu una situazione difficile,
insopportabile. Odiava essere guardato in quel modo e odiava
dover girare per il bar in cerca di una persona. Ma per fortuna
Luca lo chiamò per primo. Dico per fortuna perché Marco
sicuramente non sarebbe riuscito a riconoscerlo. L’ultima
volta l’aveva visto tre anni prima. Ora era cresciuto,
cambiato in faccia, pettinato in modo diverso. Luca lo salutò
cordialmente, stringendogli forte la mano. Poi lo introdusse ai
suoi amici: "Lui è Marco, mio vecchio amico. Marco, ti
presento Enzo, Roberto, Francesco, Tiziana, Claudio, Mara."
A Marco la compagnia non piacque molto. Alcuni dei ragazzi
avevano le camice verdi e le teste rasate. Non dovette dire da
dove veniva: malgrado avesse trascorso un paio di anni a Lugano
parlava ancora con un forte accento romano. Forse fu questa la
causa della strana sensazione che lo invadeva. Si sentiva
indesiderato nella loro compagnia, come se una barriera
invisibile si fosse alzata tra di loro. Intuiva e capiva che si
trovava in compagnia dei cosiddetti "padani". E loro
continuavano senza scrupoli il loro discorso, improvvisamente
interrotto dall’arrivo di Marco.
"Eh sì, la faremo vedere una volta per tutte a quei
terroni. Ora basta pagare le tasse per loro! Non vogliamo più i
loro insegnanti nelle nostre scuole! Il popolo padano ora sa ciò
che vuole. L’unica soluzione è l’indipendenza! Via i
terroni da qui!"
Sembrava un discorso copiato dal loro leader politico, il grande
boss. Marco si accorse che Luca si sentiva molto a disagio,
quasi più di lui. Si vedeva che non la pensava come quel suo
amico: non voleva che Marco fosse intimorito da quei discorsi.
Perciò colse un momento di silenzio per congedarsi dagli altri
e per uscire con Marco dal bar. Subito dopo cercò di scusarsi:
"Scusa Marco, non pensavo che Roberto fosse così
spudorato. Ma ormai, qua, è quella l’aria che tira. E tutto
in vista delle elezioni. Una volta passate, le acque si
calmeranno."
Marco non rispose. Per la prima volta nella sua vita si era
sentito straniero nel suo paese. Per la prima volta aveva
provato quel sentimento che d’allora in poi l’avrebbe invaso
sempre di più. Decise di interrompere subito il suo soggiorno
dai nonni e di tornare a casa, a Roma. Roma che ora gli sembrava
più che mai sua, eternamente sua.
Parte quarta
I mesi che
seguirono passarono calmi. Marco aveva ripreso gli studi
all’Università; tutto procedeva in maniera pacata. Forse fin
troppo pacata. Le elezioni parlamentari a livello nazionale
furono fissate per metà dicembre. Si trattava di rinnovare le
due camere del parlamento. Un evento normale, insomma; del tutto
normale in un paese democratico. Se non fosse che in
quell’anno, per la prima volta nella storia repubblicana,
sulla scena politica italiana comparvero alcune nuove forze
politiche. Se il movimento indipendentista del Nord, di cui
abbiamo parlato in precedenza, era presente già da un paio di
anni, la nascita di simili movimenti al centro e soprattutto al
Sud fu un fatto del tutto nuovo.
Spinti e provocati dalle dichiarazioni nazionaliste del Nord,
anche quelli del Sud e del centro cominciavano ad invocare certi
loro diritti e a prendere le distanze dai settentrionali.
Era come una reazione a catena: un nazionalismo ne faceva
nascere un altro e quello, a sua volta, ancora un altro. Così
al Sud, e soprattutto in Sicilia, si formò un movimento che
voleva far rinascere l’antico Regno delle Due Sicilie. Secondo
loro la gente del Meridione non avrebbe mai dovuto accettare la
colonizzazione dei propri territori da parte dei piemontesi e
dei lombardi, avvenuta più di un secolo fa. Inoltre non
avrebbero mai dovuto permettere che i loro operai andassero a
fare la mano d’opera a buon mercato nelle ricche province
settentrionali. Che lavorino da soli, perbacco! L’atavica
diffidenza meridionale verso le potenze straniere che da secoli
occupavano il loro territorio trovò così un nuovo bersaglio.
Solo che questa volta il bersaglio non fu né l’austriaco né
lo spagnolo, ma l’italiano del Nord che parlava pressoché la
loro lingua. Dico pressoché, perché cosa ha da fare il
dialetto siciliano o napoletano o calabrese, con la lingua di
Dante?
Al centro, invece, l’eco nazionalista si udì in un altro
modo. Ai fervori nazionalisti settentrionali si contrapponeva un
nazionalismo insolito, basatosi sull’immenso patrimonio
culturale e storico concentrato nelle regioni centrali
dell’Italia. Così in Toscana nacque un movimento che
rimpiangeva l’epoca felice in cui il Granducato poteva vantare
una supremazia culturale rispetto agli altri stati italiani di
quel periodo. Un movimento quanto più pericoloso perché al
nazionalismo nordista basato, almeno in parte, sul calcolo
economico delle imposte e dei ricavi, rispondeva con un
nazionalismo che proclamava quasi la supremazia di una razza più
intelligente, più colta, più educata delle altre.
A Roma, d’altro canto, venivano rispolverate le ceneri
posatesi nel corso dei secoli sulla capitale imperiale. I romani
vantavano la gloriosa epoca in cui erano i padroni del mondo.
Vantavano, inoltre, senza badare troppo alle continue migrazioni
dei popoli europei e alla realtà effettiva dei fatti,
un’origine imperiale del loro sangue. Sangue così diverso dal
resto degli italiani, dal resto dell’umanità...
Simili sentimenti nazionali insorsero anche nelle altre regioni
italiane, che sarebbe un po’ tedioso elencare qua.
Comunque, bisogna anche dire che all’inizio tutti questi
movimenti furono abbastanza isolati all’interno delle
rispettive comunità. Non sarebbe giusto pensare che ogni
cittadino di Roma, ad esempio, si riconoscesse nelle
dichiarazioni nazionaliste proclamate dagli esponenti politici
del movimento separatista romano.
Nemmeno il nostro Marco si riconosceva in quei discorsi. Anzi,
li disprezzava dal fondo del suo animo e cercava di opporsi alla
logica micidiale che li aveva scatenati. Partecipò persino ad
alcuni raduni prounitari che in quei mesi venivano organizzati
dai pacifisti e dai patrioti italiani. Infatti, come risposta
alle tendenze separatiste insorte in tutta Italia, dal Nord al
Sud, dall’Adriatico al Tirreno, venivano organizzati grandi
raduni nelle maggiori piazze italiane, con l’intento di
manifestare il desiderio di rimanere uniti, di continuare a
vivere assieme come da sempre avevano fatto. Ma al tempo stesso
si aprivano grandi dibattiti alla televisione, alla radio, sui
giornali, all’interno dei quali politici, intellettuali,
scrittori, registi cinematografici e uomini dello spettacolo
discutevano, litigavano e a volte si prendevano anche a botte,
talmente le loro discussioni erano accese.
Ed erano le discussioni che mettevano a fuoco soprattutto un
tema curioso e, al tempo stesso, sconcertante. Ci si domandava
se effettivamente, al di là delle aspirazioni politiche
o ideologiche dei partiti politici, che proprio in quel periodo
erano in piena campagna elettorale, fosse meglio per l’Italia
restare unita o fare una separazione totale. Questo era il vero
dilemma. Non interessavano tanto le soluzioni di compromesso
come, ad esempio, il federalismo, la maggiore autonomia delle
regioni, il confederalismo. Il problema era: o restare uniti o
separarsi. Perché, in fondo, ci si rendeva conto che qualsiasi
soluzione di compromesso sarebbe stata una soluzione temporanea:
dopo appena qualche anno (o qualche decennio, cosa cambia?) il
dilemma originario sarebbe riesploso in maniera ancora più
violenta ed aggressiva.
Come ogni grande questione della storia anche il problema
italiano aveva i suoi pro e i suoi contro. Chi era per la
disgregazione e contro l’unità diceva pressoché questo:
-era ormai ovvio che più di cento anni di unità non hanno
creato un vero tessuto italiano;
-le differenze fra mentalità, tradizioni, usi e costumi della
gente delle diverse regioni italiane erano grandissime ed
insormontabili;
-l’aspetto fisico della gente cambiava da una regione
all’altra, che stava a dimostrare l’origine diversa dei
popoli italiani;
-anche dal punto di vista economico la separazione era meglio
per tutti: creazioni di diverse monete avrebbero favorito
importazioni ed esportazioni. I corsi delle valute straniere
sarebbero stati reali e non fittizi come accadeva in precedenza,
quando la lira assumeva un valore medio e non rifletteva le
realtà economiche differenti che cambiavano da una regione
all’altra;
Dall’altra parte si controbatteva:
-l’unità nazionale esisteva eccome: bastava vedere quanti
giovani non si sentivano altro se non italiani;
-le differenze fra gli italiani delle diversi regioni
esistevano, ma esse non prevalevano rispetto agli aspetti che li
univano come, ad esempio, la letteratura (Pirandello non è uno
scrittore interessante anche per quelli del Nord? Non scriveva
nella lingua che anche loro conoscono e parlano? Oppure, Manzoni
non dovrebbe appartenere anche a quelli del Sud?);
-andare alla ricerca delle diversità sul piano fisico era
disumano. E poi quante razze e gente di diversa origine
esistevano in America? Eppure tutti si sentivano innanzitutto
americani;
Marco seguiva questi dibattiti attentamente: non voleva farsi
sfuggire niente. Anche se la sua opinione preunitaria rimaneva
immutabile, cercava tuttavia di capire, nonostante gli
risultasse quasi impossibile, anche l’altra parte. Si
accorgeva pure lui che le differenze fra un lombardo e un
siciliano, ad esempio, erano notevoli. Differenze nel modo di
pensare, nel temperamento, talvolta anche nell’aspetto fisico.
Forse era sbagliato spingere e forzare l’unità nazionale alla
creazione di uno stato italiano unitario, come era stato fatto
all’epoca risorgimentale. E non è da dimenticare che le
spinte unitarie, a quell’epoca, provenivano soprattutto dal
Nord: il Sud era piuttosto riluttante ad accettare la situazione
che gli era stata imposta. Tanto più che alcune regioni
meridionali avevano per anni opposto la loro resistenza, anche
armata, alla casa reale dei Savoia. E pensare che ora il Nord
iniziava il processo inverso. Processo di disintegrazione del
paese!
Infatti, le voci cosiddette "padane" erano le più
forti e le più insistenti nel panorama politico italiano
preelettorale. Il grande boss con il suo carisma e la sua forza
di persuasione raccoglieva sempre maggiori consensi presso la
popolazione del Nord. Era stato lui ad avviare il processo di
secessione delle regioni settentrionali. Astuto e spudorato
politico quale era, aveva saputo cogliere il momento giusto;
aveva capito quali erano le maggiori preoccupazioni e malumori
della "sua" gente, e su quella base aveva creato un
movimento politico che prometteva la giustizia e la liberazione
definitiva da Roma. Forse le sue rivendicazioni potevano trovare
qualche fondamento reale ed essere comprese come una voce di
dissenso intenta a migliorare la situazione globale del paese e
a portare il benessere a tutti... Ma questo non era il caso
perché dalla sua bocca non uscivano i consigli che un politico
saggio e responsabile avrebbe potuto dare. Le sue parole, i suoi
discorsi infuocati, anzi gli urli che lanciava durante i comizi,
sapevano soltanto di odio, di intolleranza, di aggressivo
rancore. Tutto il male stava da una parte. Male che bisognava
temere, combattere e, infine, odiare. Sapeva che la gente, per
poter odiare qualcuno, doveva dapprima temerlo. Perciò cercava
i nemici dappertutto. E spesso riusciva a trovarli, non
centinaia o migliaia di chilometri più al sud, ma proprio al
Nord. Così i nemici diventavano, ad esempio, gli insegnanti
meridionali che bisognava licenziare alquanto prima perché
pericolosi per la crescita dei ragazzi settentrionali, eccetera,
eccetera. Metodi che ricordavano le persecuzioni di un’altra
triste epoca, che si pensava fosse già lontano dietro le
spalle: mai più avrebbe dovuto ripetersi...
Odio, odio, odio. Era quello che a Marco faceva più paura.
Perché un odio ne fa nascere un altro e lui non voleva odiare
ed essere odiato. Non voleva perché qualcosa di innato gli
diceva che non bisognava serbare rancore, non bisognava odiare
l’altro solo perché in certe situazioni appare diverso da
noi. Approfondiva la sua riflessione sui dilemmi italiani
consultando manuali storici e cartine geografiche. Diceva
scherzando che, probabilmente, non avrebbe mai conosciuto così
bene la storia e la geografia del suo paese se non ci fosse
stato un simile clima politico e sociale. Ora non indagava più
sulle ragioni che nutrivano i sentimenti anti-italiani presso i
diversi movimenti secessionisti sparsi in tutta Italia. Voleva
capire meglio il vero problema, il nocciolo della questione.
Questione che potrebbe essere formulata nel seguente modo: è
meglio aprire le frontiere mentali e geografiche per unire i
popoli o è meglio chiudersi nei cerchi circoscritti con la
propria gente, col proprio popolo? È meglio, insomma, una
elvetizzazione o una balcanizzazione?
Marco intuiva che si trattava di una questione universale
che andava ben al di là dello specifico caso italiano. Poteva
trovare degli esempi emblematici in tutto il mondo. Ma non
doveva andare molto lontano: l’unificazione europea non
riassumeva già in sé tutta la questione? Bisognava proseguire
unificando sempre di più l’Europa, finché non diventasse una
specie di Stati Uniti d’Europa, o bisognava frenare l’intero
processo? E poi, in tanti stati europei esistevano forti
tendenze secessioniste che minacciavano di far esplodere tutta
la situazione: dai paesi baschi alla Scozia, dal Nord Irlanda
alla Corsica. Per non parlare poi dell’Italia! Anche se la sua
inclinazione naturale, istintiva, era quella che mirava
indubbiamente all’unificazione piuttosto che alla
disgregazione, Marco riusciva ad intravedere i rischi pure nella
sua scelta. E se un giorno, forse fra dieci, cinquanta, cento
anni, l’Europa, unita con troppo entusiasmo, cominciasse a
sciogliersi come un pezzo di ghiaccio esposto ai raggi del sole?
Avrebbe potuto scoppiare un conflitto? Infatti, le parti che si
univano per costruire un unico quadro o mosaico europeo, erano
fin troppo diverse fra di loro. Non avrebbero mai potuto creare
un’immagine tutt’uguale, dello stesso colore (magari blu),
con identiche stellette d’orate disposte in un cerchio
perfetto e circoscritto.
Ma era pure necessario fare una scelta. O sì o no. Non c’era
una via di mezzo. O ci si univa o ci si separava. O si
elvetizzava o si balcanizzava.
E fu proprio il caso elvetico ad illuminargli l’orizzonte. Era
l’opzione che bisognava scegliere in ogni caso. Opzione che
non aveva più niente a che fare né con l’Europa, né con
l’Italia, né con alcun altro caso preciso. Era un’opzione
dello spirito, una scelta morale ed umana.
Marco ricordò gli anni trascorsi in Svizzera, le chiacchiere
con i suoi amici dal liceo. Ricordò il loro ghigno quando si
parlava dell’allora nascente figura del "grande
boss" e della situazione italiana. Ghigno che in quel
momento lo irritò, gli diede fastidio. Ma ora capiva la
differenza di mentalità fra uno svizzero e un italiano. Poté
comprendere meglio quella derisione che non era né malefica né
cattiva. Gli svizzeri, pur essendo molto diversi fra di loro,
erano uniti in alcuni aspetti importanti, fondamentali per poter
fare una vita in comune. Erano uniti nel rispetto dell’altro,
nell’orgoglio che ognuno di loro provava per la propria etnia
(per chiamarla in questo modo), nel loro essere svizzeri.
Ciascuno conservava perfettamente le proprie tradizioni, la
propria mentalità e non temevano l’incomprensione da parte
dell’altro. Non si voleva fare, infatti, una massa unica,
gente tutta uguale. Proprio nella loro diversità avevano
trovato armonia, pace, serenità. Anzi, avevano esaltato al
massimo le differenze che esistevano fra gli uni e gli altri al
punto che riusciva impossibile concepire la propria esistenza
senza l’altro. Avevano bisogno dell’altro per poter vivere.
Non a caso da più di sei generazioni loro avevano vissuto in
pace, mentre la balcanizzazione aveva fatto sì che nei Balcani
ogni generazione subisse in media almeno due guerre, due
conflitti che cancellano tutto, ti sconvolgono, ti portano nei
posti stranissimi dove ci metti un bel po’ di anni per
abituarti e, non appena ti sei abituato, scoppierà un altro
conflitto: e così via. È un cerchio vizioso che non si chiude
mai.
Ma dove sta la ricetta magica? Come elvetizzare il mondo? Marco
cominciava lentamente ad intuire la risposta alla sua domanda.
Si trattava, per così dire, di elvetizzare dapprima l’anima
degli uomini, renderla più buona, più aperta, più tollerante;
estirpare l’odio e le sue radici, così minacciose per
l’umanità, per la convivenza. Ma era un compito difficile,
molto difficile. Un compito duro che aveva bisogno di anni ed
anni di pazienza, di saggezza, per poter sopportare le delusioni
amare che la vita spesso ci riserva. E per l’Italia, ahimè,
era ormai troppo tardi.
Parte quinta
"Marco,
Marco, svegliati, sono già le sette e mezzo. Sarai in ritardo
al tuo corso all’Università. Marco! Dai che fra poco danno
anche i primi risultati delle elezioni."
"Ma insomma, ti vuoi alzare o no?! Non siamo mica in un
albergo qui!"
"Sì, sì, vengo, vengo. Accendi la radio, mamma. Ah, che
notte, che incubi!"
Mentre si vestiva Marco ascoltava la voce emozionata dello
speaker alla radio: "A livello nazionale i partiti
tradizionali hanno ottenuto appena il trenta percento dei voti.
Non hanno raccolto nemmeno la metà dei consensi rispetto alle
elezioni precedenti. I partiti regionali, invece, hanno ottenuto
complessivamente la maggioranza al Parlamento. Il futuro
dell’Italia, così come la intendiamo adesso, rimane
incerto..."
Marco rimase sbalordito dalle notizie che aveva sentito. Non
poteva crederci. Non si aspettava un risultato così negativo
per la "sua" opzione. Malgrado tutto credeva che gli
italiani non sarebbero cascati nelle provocazioni e nelle
menzogne delle forze politiche nazionaliste e separatiste. Ma i
sondaggi non dicevano forse il contrario? La gente intervistata
per strada, poco prima dell’apertura dei seggi elettorali, non
diceva forse che avrebbe votato per l’Italia? Non
c’era una persona sola che avesse espresso l’intenzione di
votare per un partito regionale e separatista. (Infatti, coloro
che avevano l’intenzione di votare per i partiti nazionalisti
si vergognavano a dirlo davanti alle camere. Cosa avrebbero
pensato i loro amici provenienti da un’altra regione?)
In realtà fu così. Anche se solo una piccola fetta della
popolazione era convinta che la scelta di un partito
nazionalista era una buona scelta, alla fine anche tanti altri
optarono per tale soluzione. Prima di recarsi alle urne, forse
nel momento stesso in cui erano, penna nella mano, nella cabina
elettorale e dovevano barrare una crocetta, era scattato in loro
un meccanismo pazzesco. Era come un istinto bestiale. Quasi un
istinto di conservazione della specie. Si saranno domandati
pressoché il seguente: "Ma perché io, come uno sciocco,
dovrei votare per un partito che è di tutti, se quelli là
voteranno per il loro partito regionale, ossia nazionale.
Così, alla fine, io sarò rappresentato da un partito che è di
tutti e quello lì (furbo com’è) sarà rappresentato dai
"suoi". No, gliela faccio vedere anch’io. Non sono
mica nato ieri."
E così sia lui, che i milioni di altri, avevano fatto lo stesso
identico ragionamento. Nessuno era nato "ieri". Ma
ognuno, nel frattempo, si era comportato come un bambino ingenuo
appena partorito dalla madre.
Dopo alcuni giorni Marco ricevette una strana visita nella sua
casa romana. Era Nicola, il suo vecchio amico romano. Si presentò
davanti alla porta, il sorriso sulle labbra, con uno strano
costume. Sembrava una divisa militare. Ma Marco un’uniforme
del genere non l’aveva mai vista prima. E poi, cosa ci faceva
Nicola con quegli abiti così strani per un giovane come lui?
Non aveva mica già finito il servizio militare? E cosa sta
nascondendo dietro le spalle? Non sarà mica un fucile?
"Ciao Marco, come butta?" disse Nicola e, senza
aspettare che l’altro gli rispondesse e lo invitasse dentro,
entrò nella casa con aria esuberante e passo decisivo. E poi
aggiunse: "Cosa aspetti ad arruolarti nelle nuove forze
d’ordine costituite dalle neoelette autorità?!"
"Cosa?!" sospirò Marco con una voce incredula, quasi
impercettibile. Aveva l’aria di uno che non riusciva a capire
cosa stava succedendo attorno a lui.
Ma Nicola non aveva tempo da perdere. Visto che Marco non
reagiva gli si avvicinò e gli pose il fucile fra le braccia.
"Ecco, ti ho portato questo. Non si sa mai chi può
piombarti in casa. Dai, prova a caricarlo!"
Senza capire cosa stava succedendo Marco cercò di fare ciò che
il suo amico in maniera brusca, quasi obbligandolo ad eseguire
un ordine militaresco, gli aveva detto.
Prese il caricatore nella mano destra, ma poi si fermò di
colpo, come se un’altra mano, invisibile ma ferma, gli avesse
impedito di proseguire. Guardava quel mirino, quel grilletto e
non capiva. Non capiva cosa facesse quello strano oggetto tra le
sue mani. Fino ad allora aveva tenuto solo un fucile di
plastica. Ma questa volta non si trattava di un giocattolo. Era
un’arma vera. Sentiva il freddo che emanava il metallo, la
canna, il legno scuro del calcio. Sentiva che da quel oggetto,
costruito ad un solo scopo preciso, usciva fuori odio, minaccia
disumana, paura. Morte. Non riusciva più a muoversi.
Nicola si accorse che qualcosa non andava. Aveva, forse, intuito
il motivo del disagio di Marco. Gli disse: "Sì, lo so.
Neanche a me piace portarlo. Vedi però come cambiano i tempi.
Bisogna essere preparati."
A Marco le sue parole non apparvero così sincere. Non aveva
l’impressione che Nicola odiasse la divisa e l’arma che
portava. E non riusciva più a riconoscerlo. Era quello il
ragazzo con cui giocava da bambino? Era possibile che si fosse
trasformato in un mostro?
Purtroppo non era l’ultimo che avrebbe visto. Da quel giorno
in poi vedeva sempre più gente che veniva presa dalla stessa
pazzia, dalla stessa mostruosità. Una pazzia assurda,
inspiegabile. Nella sua città, a Roma, come anche nelle altre
regioni italiane si instaurava un clima di paura, di
incomprensione, di odio. Odio che si spargeva dappertutto, come
un’epidemia grave dalla quale era difficile fuggire.
I giornali, le televisioni regionali, non lanciavano più in
onda dibattiti incentrati sul presente o sul futuro. I loro
articoli e programmi erano ormai pieni di nozioni storiche che
ogni parte tentava di prendere a proprio vantaggio. Il loro
scopo era quello di alimentare quell’odio nascente, latente.
Odio che veniva nutrito con immagini delle antiche battaglie,
degli eserciti dei tempi passati, dei vecchi nemici che ora bisognava
temere e, perciò, anche odiare.
Fatto curioso: anche il grande boss rimase sconfitto nel nuovo
clima di risorgimenti nazionali. Infatti, il meccanismo da lui
scatenato cominciava a diventare incontrollabile. Il bambino da
lui ideato, quel morbo micidiale, minacciava ormai di divorare
il padre creatore. La sua Padania non riusciva a stare tutta
nell’ampolla della sua follia. Era troppo grossa per poterci
passare: dunque, dovette spazzarsi.
Lombardia, Piemonte, Venezia non persero l’opportunità di
dichiarare l’indipendenza dei loro stati. E perché mai
avrebbero dovuto entrare in una nuova unione di nome Padania? Un
vincolo in più, già che erano riusciti a liberarsi
dall’Italia.
Proprio in quel tormentato periodo a Marco giunse una lettera da
lontano. Era Maria che gli scriveva da un altro continente,
dall’America. Era riuscita ad ottenere una borsa di studio che
le permetteva di proseguire gli studi in un’università
americana. Nella sua lettera implorava Marco di lasciare tutto e
di andarsene dall’Italia. Avrebbe potuto trasferirsi in
Svizzera dove aveva ancora tanti amici.
La lettera confortò per un attimo Marco. Era contento che Maria
gli avesse scritto. Lei che aveva previsto quasi tutto...
Questa volta Marco decise di dare ascolto a Maria. Decise di
abbandonare tutto, tutti i problemi in cui lui e la sua Italia
erano immersi e che pian piano avrebbero cominciato a
manifestare i suoi effetti devastanti nei tragici eventi che si
sarebbero succeduti. Ma non mi interessa tanto fare la cronaca
di questi eventi che non furono altro se non un’immediata e
naturale conseguenza di una miccia accesa dalle menti malate.
Tanto più che anche Marco avrebbe voluto in seguito dimenticare
tutto. Andarsene da quella città che non sembrava più la sua,
da quel paese che una volta aveva amato così tanto. Ora gli
dava soltanto nausea.
Sfruttò l’occasione e partì in macchina con un suo
conoscente che andava fino a Bologna. Dopo si sarebbe arrangiato
in qualche modo per raggiungere la meta finale, Lugano.
Non gli risultò però facile andarsene da casa. Lasciava i
genitori in una situazione difficile. Infatti, da giorni non si
parlavano più e in casa si era instaurato un clima
insopportabile. A Marco dispiaceva molto che fosse così. Non
poteva sapere esattamente qual era la causa della loro discordia
e non osava nemmeno chiedere. Ma in realtà non voleva neanche
conoscerla. Intuiva che quel morbo assurdo era arrivato anche in
casa sua. Una ragione in più per andarsene, subito; fuggire
senza voltarsi indietro; cercare di dimenticare quell’orrenda
pagina della sua vita, della vita di tutti. Dimenticare, per
sempre.
Ma puoi dimenticare il posto dove sei nato e cresciuto, dove per
la prima volta hai e sei stato amato? Il posto di cui conosci
gli odori, le strade, ogni albero, ogni foglia? Puoi dimenticare
i suoi abitanti, le persone che hanno avuto un significato
importante nella tua vita? Riesci tutto d’un colpo a scordare
quelle piccole cose che contano nella vita e la rendono più
bella, più affascinante? Riesci ad odiare tutto ciò che una
volta hai amato?
Sicuramente no. Perché c’è qualcosa di più forte di noi, di
più forte della nostra ragione, che ci impedisce di dimenticare
ciò che vorremmo non facesse più parte della nostra vita. È
una forza naturale che prima o poi viene alla superficie,
sfondando i nostri desideri razionali.
Nemmeno Marco riuscì a dimenticare. Anzi, man mano che si
allontanava dalla sua città, dalla sua patria ormai perduta,
gli tornavano in mente i momenti belli che vi aveva trascorso.
Ricordava con precisione incredibile tutto quanto: ogni angolo
della strada, ogni pianta, ogni volto. E i ricordi gli
procuravano un dolore indomabile. Perché sentiva che tutto ciò
avrebbe fatto parte solo e soltanto del suo passato: mai più
avrebbe potuto rivedere quei volti, quegli oggetti a prima vista
piccoli ed insignificanti. Ma essi si inserivano in un contesto
speciale, si nascondevano fra i meandri di quel bellissimo
mondo, ora perduto. Mondo cui Marco dovette dire addio.
Ma esso sarebbe per sempre rimasto impresso nella sua memoria. E
dentro di lui avrebbe continuato a vivere in eterno, come un
mondo parallelo, interiore, tutto suo. Mondo infinitamente amato
e sempre, sì sempre, presente.
Parte sesta
Carissima Maria,
sono finalmente
riuscito a varcare la frontiera svizzera una settimana fa. Non
mi soffermerei sui particolari del viaggio, ma ti dirò soltanto
che in certi momenti pensavo di non resistere più. Per cinque
giorni ho dovuto attraversare i boschi nascondendomi da diverse
milizie. Ho dovuto viaggiare di notte perché di giorno era
troppo pericoloso. Meno male che ora tutto è finito.
Avrei voluto scriverti subito, ma non ce l’ho fatta. Il
chiasso dei cannoni rimbomba ancora nelle mie orecchie e non mi
dà pace. Pensa che qualche giorno fa hanno fatto i fuochi
d’artificio qui sul lago. Era il Primo d’Agosto, la festa
nazionale svizzera. Ci sono andato con Gianni e Pietro. Mi hanno
invitato per portarmi un po’ fuori di casa, per farmi
divertire un po’. Ma io, ad ogni scoppio che udivo, cominciavo
a tremare, e il cuore mi batteva fortissimo, come se avesse
percepito un pericolo imminente nelle vicinanze. Mi chiedo
quando mai riuscirò a liberarmi da questo trauma, dagli incubi
che trasformano le mie notti nell’inferno dantesco. Perciò ho
chiesto a Gianni di riportarmi a casa. Sai, è stato molto
gentile da parte sua ospitarmi in questo periodo. È un vero
amico.
I miei stanno bene, pare. Hanno detto che si metteranno
d’accordo circa le particolarità del divorzio appena la
situazione si calmerà un po’. Non lo so: forse per loro è la
situazione migliore, questa. Io, in ogni caso, per ora non ho
nessuna intenzione di ritornare. Cercherò di trovare il modo
per continuare i miei studi qui, in Svizzera. Il nonno Vincenzo
è morto nel frattempo per un infarto. Finché si poteva
contattarlo col telefono gli promettevo che presto ci saremmo
visti. Ci teneva così tanto a vedermi: forse era già
consapevole che non avrebbe più campato a lungo. La sua morte
mi lascia con l’amaro in bocca: avrei voluto vederlo per
l’ultima volta, chiedergli cosa ne pensava lui di questo
assurdo conflitto. Ma non ce l’abbiamo fatta. Qualcuno direbbe
che è il destino, ma tu sai già che io nel destino non credo
proprio. Sarebbe troppo bello se ci potessi credere: tutto si
risolverebbe facilmente, senza dover sbattere la testa contro il
muro.
In questi giorni mi accorgo sempre di più che Roma non sarà
mai più quella di una volta. L’hanno fatta diventare qualcosa
che non è mai stata: una città chiusa dentro le sue mura,
aggressiva, irriconoscibile. A me rimane ormai solo il suo
ricordo. Ricordo ancora vivo e presente di una città aperta,
cosmopolita, di una città eterna. Ora la vedo smunta e messa in
ginocchia dall’assurdità umana, come un malato grave
consapevole che la sua morte è ormai vicina ed imminente. La
vedo mortale. Mi chiedo se mai più troverò la forza per
ritornarci. Ho paura di non rimanere rattristato dall’immagine
che si presenterà sotto i miei occhi; non vorrei sentirmi
straniero in una città che mi ha partorito, che mi ha visto
crescere, che mi ha dato tutto e cui tutto devo.
Mi hanno rubato il paese, mi hanno preso via la mia città.
Vigliacchi! Mi hanno privato di tutto ciò in cui credevo, di
cui ero innamorato, con cui mi identificavo. E tutto per che
cosa? Per formare i loro miseri staterelli, per disfare
l’Italia in cui tutti siamo cresciuti. E a me non hanno
chiesto proprio niente. Se ne sono fregati dei miei sentimenti
umani. Sì, umani. Perché c’è qualcosa di più umano e di più
naturale dell’amore per la tua patria? Per loro forse sì.
Forse credevano di fare una cosa giusta, volevano creare paesi
migliori. Ma a che prezzo? Quanta gente ha dovuto pagare per le
loro ambizioni politiche?
Ma io vorrei dire loro che mi rifiuto, sì mi rifiuto di
riconoscermi in non importa quale dei loro staterelli, di
accettare la loro logica, di stare nel loro gioco. Mi rifiuto di
diventare lombardo, toscano o napoletano. Sono e sarò per
sempre solo e soltanto Italiano. È il mio diritto e nessuno a
questo mondo me lo potrà negare.
Mi accorgo, però, cara Maria, che i miei lamenti sono come
parlare al vento. Attorno a me vedo solo gente scervellata,
ipnotizzata dalla forza dell’odio. Mi sento solo,
terribilmente solo, e a volte mi pare che sia l’unico che la
pensa in questo modo. Ora sono loro i normali e io l’essere
strano, inadeguabile... Ma su questa terra ci sarà pure
qualcuno che sente il mio stesso identico disagio e capisce le
mie parole. Tu, senz’altro, mi capisci ed è per questo che ti
scrivo. A qualcuno devo dire ciò che mi preme, devo raccontare
ciò che mi stringe il cuore. Di te mi sono sempre fidato e non
vedo l’ora di vederti di nuovo. Solo che non so dove sarà e
quando. La distanza che ci divide mi sembra così grande. Ma un
giorno il momento verrà e io lo aspetterò ansiosamente.
Chissà quando mai ritroverò la mia patria. Attorno a me sento
solo incomprensione e indifferenza. I miei (ex) connazionali
sono cambiati. In una notte hanno dimenticato che anche loro una
volta erano italiani. In una notte sono diventati qualche cosa
di diverso, di irriconoscibile. Se li senti parlare sembra che
da sempre erano solo e soltanto piemontesi, veneziani, romani o
calabresi. Così sono io quello che alla fine risulta strano,
diverso, nostalgico. Eh già, nostalgico... Credono di
insultarmi chiamandomi italo-nostalgico. E io mi chiedo che male
c’è nell’essere nostalgico. Se una volta amavo il mio paese
e la sua gente, le sue montagne e le sue canzoni, i suoi odori e
le sue tradizioni, perché ora non dovrei provare nostalgia per
questo mondo perduto, per i sapori della mia infanzia? Solo
perché qualcuno ha voluto vedere tutto questo come qualcosa di
malefico, cattivo, infame?
Comunque una cosa sono riusciti ad ottenere. Sono riusciti a
farmi sentire insicuro, indifeso, angosciato dalla paura di
perdere la mia identità. Come se fossi sul filo steso sopra un
precipizio; cammino lentamente, traballando, in cerca di una
meta di cui intuisco l’esistenza, sono sicuro che esiste da
qualche parte. Mi muovo sempre di più verso questa meta che sarà
la mia salvezza. Ma basta un passo, solo un passo sbagliato
affinché anch’io precipiti nell’enorme abisso
dell’assurda cecità umana. Abisso dove l’odio,
l’incomprensione, l’intolleranza regnano. E là il posto
dove l’uomo effettivamente non vede, abbagliato dalla propria
ignoranza, dall’odio atavico verso l’altro, dall’illusoria
e assurda certezza di avere sempre ragione, di credere in una
cosa giusta. Ma loro una patria ce l’hanno, o almeno credono
di averla, e a me, invece, pare di essere nessuno, di non
appartenere a nessuno, di non sapere più da dove vengo.
Mi è capitato l’altro giorno di parlare con un americano che
m’ha chiesto: "Where are you from?". Io gli ho
risposto in mio inglese povero: "I am from Italy." E
lui:" I know that, but Italy doesn’t exist anymore. I
mean, where are you exactly from? Tuscany, Sicily, Venice...
" E come faccio a spiegargli che sono romano, ma anche
lombardo e napoletano? Che sono semplicemente Italiano, se
permette. Come faccio a spiegargli che parlo ancora italiano e
non qualche mezzodialetto regionale?
Ma forse l’Americano aveva ragione. Italy non esiste più:
parlo una lingua che ufficialmente non esiste e oso ancora dire
che vengo da un paese che effettivamente non esiste più. Vedo
già che dovrò trovarmi un’altra patria, basta solo non
perdere la speranza.
Concludo qui questa lettera un po’ troppo lunga e spero tanto
di non averti annoiato. Forse non avrai capito tutto ciò che ho
voluto dire, ma non importa. Quando ci rivedremo ti spiegherò
meglio. Intanto aspetto ansiosamente tue notizie.
Per sempre tuo
Marco
La lettera era
finita, ma a Marco sembrò che tanto ancora c’era da dire;
ebbe paura che anche quello che aveva scritto non fosse
completamente comprensibile e chiaro. Il suo animo era ancora
turbato e si accorgeva che non gli risultava facile esprimere i
propri sentimenti, molto forti, per iscritto. Ma almeno ci aveva
provato e questo gli diede un po’ di soddisfazione. Con
movimenti lenti e leggeri piegò la lettera in due e la inserì
in una busta che giaceva sulla scrivania. Scrisse accuratamente
il nome e l’indirizzo del destinatario, quindi si alzò, prese
un po’ di moneta e uscì di casa.
Era poco prima di mezzogiorno. Marco si accorse solo allora che
aveva piovuto: le strade erano ancora bagnate e sui loro lati si
erano formate delle piccole pozze d’acqua. In quelle pozze ora
si rispecchiavano però i primi raggi del sole, che scopriva la
sua faccia nel cielo sempre più sgombro di nuvole. Un altro
temporale d’estate era passato e tutto sembrava ridestarsi
sotto l’influenza benefica di quella stella che per noi
significa vita.
Rinfrancato da quell’atmosfera, dalla luce che penetrava in
ogni angolo della città illuminando i luoghi più oscuri, Marco
andò in fretta alla posta, imbucò la lettera e si diresse
verso il lungolago, a due passi dal quartiere in cui stava. Una
volta giunto sulla riva del lago di Lugano, respirò
profondamente l’aria fresca di quel mezzogiorno di metà
agosto e chiuse per un attimo gli occhi. Quell’attimo gli fu
sufficiente per fargli ricordare un pomeriggio trascorso in un
bar sulle rive dello stesso lago. Anche se solo poco più di un
anno era trascorso da quell’occasione a Marco questo periodo
di tempo sembrò un’eternità. Quanto era cambiato nel
frattempo... Eppure il lago era sempre lì, sempre lo stesso,
chiuso fra le montagne, con le sue acque il cui colore cambiava
man mano passava la giornata, con il San Salvatore, l’eterno
custode dei suoi segreti, che lo osservava dall’alto con aria
seria e lo sguardo persistente di un vecchietto curvo e severo.
Questo ricordo, la sensazione di futilità di qualsiasi azione
umana di fronte all’eternità, il rimpianto di un’epoca
felice, forse fin troppo ingenua ed innocente, lo
sopraggiunsero; sentì una lacrima scivolare lentamente
attraverso il suo volto pallido, per fermarsi poi sulle labbra
secche e rosacee. Ne assaporò il gusto salato che, stranamente,
gli piacque e lo calmò. Volse il suo sguardo tristissimo nella
direzione di quel paese che tuttora amava. Esso stava lì, da
qualche parte dietro le montagne ed era la sua vera meta. Meta
ora irraggiungibile, forse per sempre irraggiungibile, per il
semplice motivo che non esisteva più. E forse non sarebbe mai
più esistita.
Ma in quell’istante lui sentì il suo cuore battere forte. Un
fremito traversò il suo corpo e lo scosse profondamente. Si
accorse che la sua meta era lì, vicina, addirittura dentro di
lui. Infatti, la sua patria stava dentro il suo cuore e lui giurò
a se stesso che non avrebbe permesso a nessuno, mai e per alcun
prezzo, di prendergli ciò che era suo, ciò che ancora e solo
il suo cuore custodiva. Sorrise. E fu un sorriso di trionfo
assoluto, di vittoria attesa a lungo contro le assurde forze del
male generate dalla mente umana. Ma fu al tempo stesso un
sorriso carico di una perenne malinconia, che mai più
l’avrebbe lasciato. Girò le spalle al lago e se ne andò a
passi minuti.